Borgomanero - Con Marta Bobbio, Ivan De Negro e Piergiorgio Fornara siamo partiti lunedì 20 marzo nel pomeriggio e siamo arrivati a Leopoli in Ucraina il giorno seguente alle ore 11 proprio quando si stava ultimando lo scarico dei prodotti alimentari e del vestiario nei locali dei Salesiani. Accolti da don Petro Mayba, direttore della casa salesiana dove siamo stati ospitati, ci attendeva il pranzo con un ottimo piatto di borsch, la tipica minestra ucraina a base di barbabietole. Dopo aver ascoltato e dialogato con don Petro sull’attuale situazione del Paese e del conflitto in atto per il quale non si vedono al momento soluzioni di pace, siamo andati nel pomeriggio a piedi nel centro di Leopoli, città molto bella che accoglie migliaia di profughi provenienti dall’est del Paese. La città ai nostri occhi è sembrata tranquilla con un gran via vai di persone e se non fosse stato per i sacchi di sabbia a protezione delle finestre di alcuni edifici e soprattutto per la presenza di un bambino che accanto alla bandiera ucraina con il microfono in mano cantava una canzone patriottica niente ci avrebbe fatto pensare di essere in un Paese che sta subendo una guerra da un Paese invasore. Il giorno seguente, mercoledì, siamo partiti alle 4 per arrivare dopo sette ore, almeno due delle quali percorse su strade strette con un asfalto martoriato da buche. Solo grazie alla grande abilità di guida di Piergiorgio siamo riusciti a tenere il passo di don Grisha, il direttore di un’altra casa salesiana che ci accompagnava. Abbiamo attraversato piccoli paesi che sembravano di altri tempi, piccole case di contadini, filari di alberi che si inchinano al centro della strada a formare una galleria, grandi nidi di cicogne sui pali della luce, terreni coltivati che si estendono fino all’orizzonte. Alle 11 siamo giunti a Bila Cerkva, a sud di Kiev, dove dal tir è stato scaricato il grande generatore da 315 kw per l’ospedale.
Giornalisti della tv ucraina hanno ringraziato la ditta Pintonfond e il suo titolare Loris Pinton per il dono del generatore. Abbiamo pranzato con loro e con un medico dell’ospedale e subito dopo siamo partiti per Borodjanka a nord di Kiev, una cittadina di 12mila abitanti che lo scorso anno ha subito pesanti attacchi dai russi e ha avuto 300 edifici distrutti, 160 morti e 30 dispersi. Il sindaco ci ha accolto nella scuola, perché il municipio è andato distrutto, e ci ha raccontato non solo quanto accaduto, ma anche le ripercussioni psicologiche che le persone e in particolare i ragazzi hanno subito: per questo hanno predisposto un servizio di supporto psicologico per aiutarli. Transitando lungo una strada di questa cittadina, le immagini dei palazzi sventrati con i bambini che a poca distanza giocano ha fissato nella nostra mente un fotogramma indelebile.
Siamo poi partiti per Kiev dove abbiamo pernottato e nella mattinata seguente, dopo aver sentito l’allarme, abbiamo percorso a piedi alcune vie verso il centro della città. Anche qui come a Leopoli se non fosse per alcuni posti di blocco, la vita sembrava scorrere normalmente. Le persone hanno un’applicazione sul loro telefono che li avvisa quando è partito un missile, entro quando e dove potrebbe cadere...
Siamo tornati verso sera a Leopoli e il mattino seguente siamo andati da don Andrii Platosh, salesiano, al campo profughi nella prima periferia di Leopoli. Il campo che a novembre ospitava 350 persone adesso ne ospita 705 grazie alla donazione del governo polacco di nuovi moduli abitativi. Don Andrii, sacerdote salesiano di grande bontà e con uno spirito di don Bosco che esce da ogni sua parola e gli fa luccicare gli occhi, vorrebbe creare un oratorio, una zona con dei giochi per tutti i bambini presenti nel campo, ma, dice «non tutti sono d’accordo» riferendosi agli altri amministratori che con lui gestiscono la vita in questa piccola città nella città.
Siamo ripartiti a mezzogiorno per fare ritorno in Italia dove siamo arrivati nella mattinata di sabato a tempo per partecipare alla Messa nella chiesa del Sacro Cuore a Borgomanero in occasione delle 24 ore di adorazione e preghiera.
Cosa ci portiamo a casa? I volti dei bambini alla casa salesiana e al campo profughi, le donne anziane al mercato con i loro pochi prodotti da vendere, l’impegno dei sacerdoti come don Grisha che hanno fatto del Vangelo la loro vita e affrontando pericoli e mettendo a rischio la loro stessa vita portano aiuti alla popolazione e ai feriti nelle zone all’est dove la guerra imperversa. E ancora una volta l’assurdità della guerra pagata come sempre dalla povera gente, dal popolo, mentre l’industria delle armi e non solo quella aumenta i suoi profitti, la corruzione che imperversa, i pochi medici e infermieri che per curare i giovani soldati feriti al fronte (ci sono migliaia di giovani resi invalidi dalle ferite) non hanno a disposizione i medicinali necessari, antidolorifici, soluzioni idratanti, garze e disinfettanti e neppure degli indumenti intimi per cambiare quelli sporchi e intrisi di sangue. Giovani, popolazione, stanchi della guerra, ma che non vogliono cedere all’invasore, non vogliono tornare sudditi, credono che l’unica strada possibile per arrivare alla pace sia la vittoria sul campo, l’allontanamento dell’esercito russo dai loro territori.
Il nostro compito: restare vicini alla popolazione dell’Ucraina, rispondere ai loro bisogni, pregare perché i politici sentano la responsabilità di questa guerra e si decidano a percorrere strade di mediazione per arrivare alla fine di questa ennesima tragedia, per arrivare alla pace. E che ciascuno di noi senta viva la propria responsabilità nello stimolare i politici a percorrere le strade della pace. In Francia migliaia scendono in strada perché lo stato ha innalzato l’età pensionabile, ma lì come in Italia non ci indigniamo più per le migliaia di vittime della guerra, per i bambini rimasti orfani, non sappiamo più osare la pace. Fermiamoci a riflettere e a pregare e facciamo nostro l’invito di Gesù: «Convertitevi e credete al Vangelo» (Mc 1, 15).