Novara - Prima assoluta dell'opera "Il canto dell'amore trionfante" di Turgenev "riletta" dal maestro e compositore Paolo Coletta, che andrà in scena venerdì 12 dicembre alle 20.30 al Teatro Coccia di Novara. L'occasione presenta anche un risvolto benefico, poiché parte del ricavato della serata sarà devoluto al progetto "STM Care" della Scuola del Teatro Musicale diretta da Marco Iacomelli e Andrea Manara.
LA STORIA - Anno 1542. Una bella e giovane donna, Valeria, è amata da due amici, Fabio e Muzio. Dal primo d'un amore puro e luminoso, dal secondo d'un amore torbido e sensuale. Valeria sposa Fabio e i due sposi vivono felici. Muzio intraprende un viaggio che lo porterà in Asia. Lì impara a praticare le arti magiche, grazie alle quali, al suo ritorno, riuscirà a piegare Valeria al suo desiderio. Nella giovane donna riemerge la contraddizione interiore tra anima e corpo, spirito e materia. Pur amando il marito, in preda a un intimo tormento e a dubbi angosciosi si piega a Muzio e ha con lui un convegno amoroso. Nel culmine dell'amplesso, la ragazza sente per la prima volta dalla voce di Muzio «il canto dell'amore trionfante», ammaliante e incantevole melodia che la spinge a darsi interamente a lui. Dopo quest'esperienza Valeria è profondamente turbata; tornata a posare come modella del quadro che il marito sta dipingendo ritraendola nelle vesti di Santa Cecilia, non può più raffigurare le sembianze della vergine, icona della purezza di spirito. Solo la morte di Muzio, ucciso dal pugnale di Fabio, sembra ristabilire l'equilibrio e ridare a Valeria-Cecilia il suo candore e insieme quell'espressione, il cui smarrimento aveva tanto turbato il marito pittore. Ma è un ritorno illusorio, perché un giorno Valeria, seduta davanti all'organo per posare, sente all'improvviso il bisogno di trarre dai tasti le note di quel «canto dell'amore trionfante» che aveva appreso nel momento di abbandono da Muzio, e nello stesso tempo dentro di sé il palpito di una nuova vita.
Scrive il regista Paolo Colella: "Il segno sonoro della contemporaneità, oggi è ancora retaggio di alcuni movimenti del secolo scorso, quando la scrittura poteva rappresentare un atto di eversione, l'espressione extra-musicale di un'idea, di un'ideologia. Ora che questa funzione è dissolta si assiste inspiegabilmente al sopravvivere di certe pratiche di destrutturazione di strutture che di per sé già non esistono più. Si continua a destrutturare cioè qualcosa che è già destrutturato. Pare esserci un nodo difficile da sciogliere, rappresentato dal rapporto di soggezione e subordina-zione che lega noi autori di oggi ai nostri predecessori e — più precisamente — ai nostri maestri. La crisi di articolazione tra vecchi e nuovi linguaggi, che era la chiave di volta per far nascere veri e propri nuovi sistemi simbolici spesso inaspettati, ha precipitato la creatività dell'avanguardia musicale del nostro Paese (ma forse anche altrove) in una sorta di acquiescenza parecchio conformista che spinge i compositori ad aderire a una specie di alfabeto sonoro che del crisma della sperimentazione ormai conserva spesso solo l'intenzione. Ma è vero che quello su ciò che è o non è contemporaneo, è un discorso che può facilmente sci-volare sul piano di ciò che è rivoluzione o reazione, apocalittico o integrato, vecchio o nuovo, giusto o sbagliato. Troppo spesso la storia ci ha offerto lo spettacolo della sfida tra punti di vista tanto lontani, eppure in realtà così vicini, rivelandone poi la natura di pretesto tutt'altro che arti-stico. Abbiamo probabilmente qualche strumento in più per evitare il rischio di consentire alla musica di proiettare ombre troppo lunghe sul terreno della filosofia e del pensiero dell'uomo con-temporaneo. Mi limiterei quindi a manifestare e condividere qualche ragionevole dubbio sul dover o non dover aderire necessariamente agli ultimi ritrovati della creatività compositiva della musica cosiddetta contemporanea — e nella fattispecie del teatro musicale che nasce oggi —, e a ridimensionare quella che sembrerebbe la premessa a chissà quale dissertazione sullo stato dell'Arte a una semplice premessa e basta. Certo è che, in un periodo in cui è evidente una spiccata predilezione e un significativo interesse per il suono in senso grezzo, quasi materico, esplorato in primo luogo nella sua connotazione timbrica, e la concezione tematica della musica suona come retorica, enfatica e superata, mi è sembrata una sfida interessante ripristinare alcuni legami con la tradizione musicale italiana e non so-lo in senso non accademico (il che non significa anti – accademico). Ho colto così l’occasione offerta dalla Fondazione Teatro Coccia di operare con una certa libertà alcuni sconfinamenti. Come mettere insieme per esempio un cantabile di matrice dodecafonica con veri e propri prelievi dal teatro musicale ottocentesco e del primo novecento: vale a dire arie e, in genere, numeri chiusi, che piombano nella partitura come monoliti nel deserto sconfinato dell'assenza di tonalità. D'altronde, la scelta di trasporre in opera “Il canto dell’amore trionfante” di Ivan S. Turgenev è derivata in primo luogo dalla dislocazione temporale e spaziale del racconto, ambientato nella Ferrara del 1542, nonostante l’autore fosse russo e vivesse e operasse nell’Ottocento. Questa obliquità è il criterio principale che ha favorito la traduzione del racconto in opera. Ho così diversificato i linguaggi compositivi, a partire dal patrimonio melodico e vocale del pe-riodo rinascimentale. Pur assente ogni intento di ricostruire l'atmosfera delle corti cinquecentesche in Italia, cercando di non tradire una prospettiva storico-musicale rigorosa, la partitura si propone di interpretare nell'oggi la complessità delle influenze musicali, emblematica proprio di quel periodo. Come già nei romanzi, così nei racconti di Turgenev i veri eroi sono le figure femminili; sono quelle che più rappresentano l'animo dello scrittore, le sue illusioni e la sua fede. In questo, dedicato alla memoria di Gustav Flaubert, come in altri racconti ritroviamo il tema del-lo sdoppiamento che si produce sotto l'influenza del dubbio, dello scetticismo, e il dilaniarsi della persona tra amore e passione, tra fedeltà e istinto, tra cultura e natura. In un clima fantastico e onirico, “Il Canto dell'amore trionfante” presenta anch'esso un elemento costante di buona parte della produzione novellistica turgeneviana: il motivo soprannaturale o al-meno magico che sta alla base della svolta tragica della vicenda dei tre ragazzi. È proprio la natura fantastica del racconto dello scrittore russo ad avermi sollecitato a spingere sia la scrittura della partitura che quella del libretto, oltreché della messa in scena, su un piano decisamente fantastico. Quasi una preveggenza dei meravigliosi e inquietanti scenari che di lì a qual-che anno sarebbero stati partoriti dal genio di un altro grande romanziere russo: Isaac Asimov. Non sono poche al mondo le edizioni del Canto inserite nei cataloghi della letteratura fantastica, se non addirittura fantascientifica. Procedendo così per rapide associazioni di idee e forzando questa affascinante ascendenza onirico – metafisica, proprio la musica mi ha consentito di mettere insieme una serie di mondi apparentemente distanti, ma che — grazie al cinema (e quindi alla musica per film) — diventano decisa-mente conciliabili attraverso l’utilizzo del “genere”, così come declinato da due grandi maestri del racconto di genere d'ogni tempo: Hitchcock e Kubrick. E se ho parlato poco fa di monoliti, cercando di trovare un'immagine per definire qui la natura delle arie, come non prendere a prestito il grande monolito nero comparso nella prima parte di 2001: Odissea nello spazio? E così proseguendo: come non chiedere ancora aiuto al linguaggio filmico di Kubrick quando riprende il tema del doppio sogno schnitzleriano in Eyes Wide Shut per esplorare l'ambivalenza sessuale di un matrimonio felice, cercando di “equiparare l'importanza dei sogni e degli ipotetici rapporti sessuali con la realtà”? È esattamente ciò che accade a Valeria e Fabio, attraverso il loro amico/fratello/amante Muzio. Di genere in genere, a rapidi balzi, pensare a Hitchcock diventa inevitabile, quando la storia assume le tinte scure del noir e della tragedia, pur non perdendo la proverbiale levità del regista inglese nel raccontare. Anche in questo caso, la musica di Herrmann, il suo inconfondibile suono, un certo uso convulso degli archi, sono capaci di riassumere in sé un'intera poetica del thriller e del racconto di suspence. Il più piccolo prelievo di tale materia è capace di germinare senso in qualsiasi altro contesto anche lontanissimo. Detto questo, poiché il cuore pulsante di un'opera di teatro musicale è la voce, non mi resta che ringraziare Blerta, Alberto e Vladimir per aver condiviso e tradotto in realtà quest'idea. Quest'opera non sarebbe mai esistita senza l'intuizione e il coraggio di Renata Rapetti; il suo allestimento non sarebbe mai avvenuto senza l'ineguagliabile fiuto di Renato Bonajuto, grazie al qua-le ho avuto la possibilità di conoscere Nathalie Marin, quint'essenza di tutto ciò che un compositore può desiderare dal suo direttore. Dedico “Il canto dell'amore trionfante”, come minacciato da mesi, a PierLuigi Russo".