Novara - Secondo Marco Fortis, docente di Economia industriale e Commercio estero all’Università Cattolica di Milano, editorialista e vicepresidente della Fondazione Edison, all’Italia serve una riforma “reputazionale”, un radicale “cambio di rotta” nella percezione della propria immagine e nella sua diffusione all’estero, soprattutto per quanto riguarda alcuni aspetti fondamentali della sua struttura economica.
Intervenendo all’incontro “Liberiamo la crescita. Gli scenari economici dopo la crisi”, organizzato oggi dal Comitato per la Piccola Industria dell’Associazione Industriali di Novara, Fortis ha spiegato che l’immagine dell’Italia percepita all’estero, «nonostante il recupero di credibilità operato dal Governo Monti, e in prima battuta dallo stesso premier con la sua autorevolezza, è tuttora disastrosa: prevalgono su di noi luoghi comuni e antiche credenze, spesso autoalimentate dagli stessi “opinion maker” di casa nostra, che inevitabilmente ci condannano sempre ad essere i “malati” d’Europa o gli allievi perennemente dietro la lavagna, a scontare castighi che vanno dalla vecchia “macchia” del debito pubblico a una presunta perdita generalizzata di competitività».
Secondo l’economista, «è corretto abbattere la spesa pubblica improduttiva, tagliare gli sprechi, fare le riforme, ma si deve fare attenzione a non frustrare lo sviluppo, creando una spirale perversa per cui gli sforzi fatti in termini di riduzione del debito vengono vanificati dalla caduta del Pil, con la conseguente crescita della disoccupazione e chiusura di aziende. Se l’Italia, quindi, pur con i suoi problemi, non ricostruisce la sua immagine all’estero sarà sempre costretta a fare i “compiti a casa” ben oltre quello che sarebbe giustificato, a fare più rigore del necessario, a pagare più tasse del dovuto, il che sottrarrà risorse per la crescita».
Fortis è convinto che «se vogliamo essere meno puniti dai mercati e giudicati meno superficialmente dagli stessi organismi internazionali e dalle agenzie di rating, dobbiamo cominciare a ricostruire con pazienza l’immagine del nostro Paese, cominciando dalla base, vale a dire dalle statistiche. Dobbiamo chiarire che molte statistiche “convenzionali” distorcono la reale situazione economica del nostro Paese oppure non sono capaci di mettere in evidenza i nostri punti di forza».
Presentando i risultati di alcune ricerche da lui compiute, e illustrate in più occasioni anche nei suoi articoli sul Sole 24 Ore, Fortis ha spiegato agli imprenditori novaresi che la situazione economica “reale” del nostro paese è migliore di quanto si pensi all’estero. «L’Italia – ha detto – si è impegnata a conseguire il pareggio di bilancio entro il 2013, caso unico al mondo, anche se ciò ci ha portati in una dura recessione. Perché? Perché l’Italia è considerata un Paese che non cresce e che ha i conti pubblici scassati, cioè un Paese debole finanziariamente, che corre il rischio di fare la fine della Grecia. Se il nostro spread è alto è essenzialmente perché siamo accusati di due cose: avere un Pil che cresce poco, perché, si dice, siamo “poco competitivi”, e un alto rapporto debito pubblico/Pil, perché, si dice, siamo “spendaccioni”. Ma tra i luoghi comuni da sfatare c’è proprio la questione della crescita: nell’ultimo quindicennio la crescita del nostro Pil è stata bassa, ma lo era anche quella della Germania, che pure è il Paese più competitivo al mondo. Altri Paesi crescevano più di noi e della stessa Germania, cioè Usa e Regno Unito, ma anche Grecia, Irlanda, Spagna, ecc... lo facevano solo grazie ai debiti privati e/o pubblici che sostenevano la domanda interna, non perché fossero Paesi competitivi; tanto è vero che tali economie hanno alti deficit commerciali strutturali con l’estero per i manufatti, mentre l’Italia è in forte surplus».
Secondo Fortis l’affermazione che l’Italia non cresce perché le manca la competitività non corrisponde al vero. «Le imprese italiane che esportano – ha aggiunto – pur sostenute da un sistema-Paese che non le aiuta, sono competitive. Se l’Italia non cresce è perché la sua domanda interna è stagnante da anni, e oggi è addirittura in forte calo a causa dell’austerità. Nonostante i fattori di sistema – burocrazia, infrastrutture, lentezza e incertezza del diritto, rigidità del mercato del lavoro, costi dell’energia, ecc... – penalizzino notevolmente le imprese italiane, il nostro Paese si è confermato nel 2010 secondo al mondo per competitività solo alla Germania, secondo il “Trade Performance Index” Unctad/Wto. L’Italia, assieme a Cina, Germania, Giappone e Corea del Sud, infatti, è tra i soli cinque Paesi del G-20 in surplus con l’estero per i manufatti. La bilancia commerciale manifatturiera con l’estero ha raggiunto negli ultimi 12 mesi terminanti a giugno 2012 un livello record vicino agli 80 miliardi di euro, assai superiore ai massimi pre-crisi toccati nel 2008, che erano intorno ai 64 miliardi».
L’Italia deve quindi, secondo l’economista, ritrovare l’orgoglio per la manifattura. «Siamo il secondo Paese manifatturiero d’Europa e forti esportatori – ha concluso – e dobbiamo ritrovare l’orgoglio di essere tali. Un Paese come il nostro non può non avere una politica tecnologico-manifatturiera moderna, orientata all’export. E in materia dobbiamo anche far sentire di più la nostra voce in Europa. Nell’attuale crisi un obiettivo “sogno” era quello della “svalutazione fiscale”: la riduzione degli oneri contributivi non pensionistici per le imprese esportatrici. Ma l’aumento dell’Iva che avrebbe potuto finanziare questa misura ce lo siamo già giocato per conseguire il pareggio di bilancio. In prospettiva, quindi, occorre puntare di più sulla valorizzazione dei nostri prodotti, conquistando nuove nicchie non aggredibili dai Paesi a basso costo del lavoro. È necessario, ma anche possibile, stando a quanto dicono i numeri, conquistare quote di mercato sui mercati emergenti. Bisogna però anche tutelare maggiormente il made in Italy dalla contraffazione».